Hacking Monuments
Il progetto Hacking Monuments è il risultato del lavoro di ricerca ancora in corso di Simona Da Pozzo, nasce nel 2017 con lo scopo di indagare l’entità del monumento in uno spazio pubblico e come la sua presenza possa compromettere lo spazio, le persone e influenzare l’eredità culturale, e ancora più rilevante, il rapporto tra arte e potere. Prima di approdare a una mostra online, la ricerca inizia con le narrazioni composte per l’omonimo blog in cui l’artista ha raccolto le riflessioni di altri artisti e/o attivisti e istituzioni circa il concetto di standpoint.
Nell’ottobre 2019, il Comune di Milano e Triennale Milano hanno indetto il bando Call for ideas – Urban Factor, con lo scopo di selezionare per il public program di Milano Urban Center progetti di ricerca che si relazionassero direttamente con la città attraverso un ciclo di 10 incontri. Hacking Monuments è risultato uno dei vincitori. Con lo scoppio della pandemia, però, il programma originario è stato sospeso e ripensato nelle modalità e nei contenuti. Hacking Monuments, curato da Simona Da Pozzo per Ex-voto (Radical Public Culture), ha così riprogrammato i propri incontri e trasposti in modalità digitale in modalità live: Hacking Monuments. Tips to make sense of them, una mostra in collaborazione con Visualcontainer; Parli con me?, un workshop aperto e gratuito tenuto da Pietro Gaglianò; e Dall’Ombra, azioni urbane e testimonianze disseminate a cura dell’artista Patrizio Raso. Il nuovo ciclo di incontri, intitolato Milano Urban Center – Idee per Milano 2020 e inserito nella programmazione di Triennale Estate, è stato inaugurato il 18 giugno 2020, presso Triennale Milano, con una conversazione dal titolo Hacking Monuments durante la quale si è trattato di nuove forme di convivenza nella città indotte dal Covid-19 e dell’abbattimento di monumenti di figure controverse.
L’idea alla base della mostra è l’intervento o hacking sui monumenti e come possano sconvolgerne la lettura fino al ribaltamento degli ideali, della morale, della storia di cui sono veicolo. Gli artisti partecipanti espongono i diversi atti di ri-codificazione di determinati siti pubblici. Nonostante ciascuno di loro mostri differenti monumenti e interventi più o meno invadenti, il loro punto di partenza è uguale: concepire l’oggetto preso in analisi come un palinsesto, di cui gli artisti sono riusciti a decifrare le sotto-tracce, le filigrane che si sono spontaneamente generate e che affiorano come i sedimenti geologici. La sensibilità diventa arma con la quale è possibile – e anche necessario – mettere in discussione non solo lo statuto di monumentalità ma anche la parzialità della storia che raccontano.
Già altri artisti precedentemente si erano occupati di un tema delicato come la percezione dei monumenti nello spazio pubblico (si vedano Christo e Jean Claude) e a causa dei disordini statunitensi – le cui ripercussioni hanno risuonato a livello globale – oggi è più attuale e scottante che mai. Le riflessioni che ne scaturiscono derivano dal nostro standpoint, paradossalmente senza posa, sugli interventi che sono stati eseguiti e sulla loro legittimità.
Tra le proposte Sophie Ernst presenta Silent Empress, operazione che ha dato voce alla statua della Regina Vittoria nella città di Wakefield e sul passato coloniale; l’installazione è stata vietata poco tempo dopo dal consiglio cittadino. Una tematica che la accomuna ai lavori Segundo Regicidio (The Black Square) di Kiluanji Kia Henda realizzata in Portogallo e Demythologize that History And Put It To Rest di Marcio Carvalho, entrambi si prestano a realizzare un contraltare concettuale o performativo dinnanzi l’oggetto ormai cristallizzato dal tempo e da un’idea. Si unisce al racconto della mostra Little Figures di Sarah Vanagt che mette in dialogo le statue sul Mont des Arts a Bruxelles raffiguranti re Alberto ed Elisabetta all’ingresso della città con una ragazza rifugiata ruandese e un ragazzo marocchino; la conversazione immaginaria verte su toni duri, l’aggressione verbale sembra preannunciare certe operazioni vandaliche a cui abbiamo assistito in seguito.
Infine, un lavoro ugualmente forte per impegno politico e nella sua connotazione sociale contemporanea: God’s call di Simona Da Pozzo. Anche in questo caso la conversazione è immaginaria ma stavolta vede da entrambi i lati due statue: il monumento al Dio del Nilo a Napoli e quello al Dio Maas a Rotterdam. Le due divinità entrano in contatto il giorno dell’equinozio di primavera 2020, in pieno lockdown, tuttavia riescono a colmare la distanza e le restrizioni, in un modo ormai a noi familiare, con una videochiamata Zoom. L’artista non ha voluto, a differenza dei compagni in mostra, dare una voce alla pietra, la conversazione è afonica, sebbene sia riuscita a personificare, in assenza di gente nelle strade, i ‘nuovi’ suoni (strade, acque, fiumi), unici personaggi figuranti nel grande silenzio, che si sono imposti per conquistare a loro volta uno standpoint nel paesaggio urbano e umano.