Interviste “in diretta”: Gabriele Salvaterra
Lunedì 16 marzo, è stata trasmessa in diretta su Instagram la seconda intervista live raccolta da una delle contributors di Balloon Project. Dopo che Eliana Vasta ha rotto il ghiaccio insieme all’artista Ettore Pinelli (l’intervista completa qui), Bianca Basile ha intervistato Gabriele Salvaterra intorno alla sua esperienza curatoriale e alla mostra Grey Street, visitabile anche on line accedendo al portale Artland dal sito della galleria milanese che la ospita, Area35 Art Gallery & Art Factory.
Puoi presentarci il concept della mostra: il grigio in termini pittorico-disegnativo e il grigio come allegoria dei nostri tempi?
Il titolo della mostra è stato preso a prestito da una canzone pop-rock del gruppo Dave Matthews Band; cerco spesso di integrare nel mio lavoro referenze provenienti da altri mondi non strettamente artistici. La canzone racchiude lo spunto da cui poi si è sviluppata tutta l’idea: i colori della strada a un certo punto si mescolano e, pur essendo tanti, raggiungono una tonalità grigia che corrisponde alla vita infelice della protagonista della canzone.
Il nucleo della mostra rispecchia – anche se il riferimento è venuto dopo – con quello del brano: l’idea era coinvolgere un gruppo di artisti che lavorano sul grigio sia in senso cromatico che metaforico. Grigiore in quanto noia e indifferenza, ma anche ricchezza e complessità poiché, potenzialmente, al suo interno sono presenti tutti i colori dello spettro cromatico e, quindi, innumerevoli possibilità. In sostanza, la sfida è stata quella di fare riattivare queste possibilità insite nel colore e nei suoi significati tramite l’interpretazione di dieci artisti.
Metaforicamente, poi, il tema ci porta al discorso dell’ibridazione: lo stesso senso comune dice infatti che il mondo non si può ridurre alla netta polarizzazione bianco/nero cui, tuttavia, siamo stati abituati dal linguaggio politico e mediatico. Il grigio ci ricorda che esistono sempre delle sfumature di verità tra gli spazi della semplificazione.
Infine, il concetto di grigiore sociale può sintetizzarsi nella parola routine, nel fatto che viviamo spesso in un ambito urbano che non consente un’espressione totale della nostra personalità. Anche qui è proprio l’eccessiva quantità di stimoli a limitare, paradossalmente, la nostra percezione di varietà del reale. Come, appunto, in un eccessivo mescolamento cromatico che dà luogo al “poco interessante” colore grigio…
Parliamo degli artisti: come declinano il tema? Puoi farci qualche esempio per analogie o differenze?
Per prima cosa, gli artisti coinvolti – da giovani a mid-career – si confrontano, sul tema, con una tradizione importante, quella che, con Gerard Richter, Sigmar Polke, i coniugi Becher, tutta la scuola di Düsseldorf e Luc Tuymans ha trasformato il colore-simbolo dell’apatia in qualcosa di estremamente interessante. Agli artisti era richiesto di dare concretezza alle varie declinazioni che il grigio poteva avere ed è stato interessante vedere, durante l’allestimento, la mostra crescere con grande coerenza e uniformità, innanzitutto cromatica, dietro alla quale però emerge la varietà e anche la distanza dei mondi poetici da cui provengono i vari interpreti di questo tema. La mostra è nata dal lavoro in stretto contatto con artisti che già lavoravano su questa attitudine o questo sentire. Con due di loro, in particolare, è nata l’idea di fare una mostra sul grigio: Ettore Pinelli – protagonista della prima intervista live di Balloon Project – e Michele Parisi, con i quali si parlava di realizzare una collettiva assieme anche a Luca Coser. A questo nucleo originario si sono poi aggiunti gli altri che elenco in rigoroso ordine alfabetico:
Renato Calaj è un artista molto giovane, di origine albanese che utilizza la pittura e che si ispira all’ambito urbano e della street art per cercare di riattivarne l’indifferenza e l’elemento anonimo, riappropriandosi di questo ambiente;
Luca Coser è un pittore che lavora sugli archivi personali, indagando il rapporto tra immaginario personale e immaginario collettivo. Coser riprende i soggetti dei suoi lavori dal suo bagaglio culturale: vecchie fotografie o film d’epoca filtrati dalla propria memoria e interiorità e ripresentati in pittura con un lavoro di evocazione e cancellazione;
Giulia Dall’Olio lavora invece principalmente a grafite e a carboncino sull’immaginario naturale. Le sue selve e i suoi boschi realizzano uno spazio ambiguo tra natura e cultura dove l’uomo può ancora perdersi ed entrare in contatto con l’elemento naturale, costitutivo del nostro essere e spesso dimenticato;
Lorenzo di Lucido lavora sugli scivolamenti e le ambiguità prettamente pittoriche partendo dai generi storici quali la natura morta e il paesaggio, per arrivare – con una tecnica calligrafica e di rarefazione delle pennellate – agli ultimi lavori ai limiti di monocromo e astrazione;
Debora Fella, con uno sguardo alla pittura simbolista, ci porta invece in un mondo di sogni, di un’atmosfera notturna, informata di rêverie, facendo suo l’ambito onirico;
Andrea Mangione si connette invece agli archivi online, ai luoghi che noi troviamo restituiti da Google Maps e da Google Immagini. I luoghi attraversati in passato acquisiscono pregnanza dal ricordo personale e poesia generata dalla malinconia di questo rapporto distanziato, restituiti attraverso una tecnica ai limiti dell’iperrealismo;
la “confusione tecnica” di Michele Parisi unisce pittura e fotografia. Realizza emulsioni su tela riprese poi in pittura, ricordando molto la fotografia pittorialista di fine Ottocento, con uno stile quindi molto flou, ambiguo e sensuale;
Giovanni Pasini è stato scelto per la sua sottile capacità di raggiungere un equilibrio cromatico attraverso l’abbassamento tonale anche dei colori più accesi. L’esito elegantissimo si accompagna a una riflessione post-antropocentrica: cercare di ricordare l’importanza del dato naturale attraverso l’ambiguità del suo stile, tra figurativo e astratto.
Ettore Pinelli si rifà agli archivi on line, indagando il tema della violenza. Il grigio permea il suo stile poiché spesso seleziona video registrati da telecamere a circuito chiuso, lo-fi, con una sgranatura che dilata di per sé la brillantezza delle immagini. La metafora dell’archivio iconografico, su cui lavora pittoricamente, distanziando il referente, allude alla passività con cui “mandiamo giù” anche le immagini più brutali. La cancellazione operata successivamente dall’artista corrisponde, invece, a una critica al bombardamento da immagini cui siamo sottoposti quotidianamente;
Rolando Tessadri è l’astrattista puro del gruppo: lavora sulla texture, sulla composizione geometrica e sul monocromo. L’uso che fa dei colori è però più umanistico che scientifico. I suoi neri e i sui grigi contengono in sé tonalità molto varie intuitivamente mescolate che restituiscono una gamma di riverberi molto ricca anche nel monocromo più rigoroso.
Puoi spiegarci il lavoro di fruizione on line fatto da Artland sulla mostra?
Questo tipo di fruizione online, in 3D, che non conoscevo è stata una felice intuizione del gallerista di Area35, Giacomo Marco Valerio, in coincidenza con la necessità di trovare un modo alternativo di far visitare la mostra a tante persone, in remoto. Una volta allestita l’esposizione, un operatore di Artland ha realizzato delle riprese a 360° che, una volta montate assieme, hanno consentito di percorrere verosimilmente lo spazio della galleria, di muovervisi liberamente avvicinandosi ai lavori, leggendo le didascalie e, soprattutto, vedere come tra loro le opere risuonano.
L’assoluta sorpresa è stata quella di vedersi accostati a grandi musei, come gli Uffizi o Palazzo Strozzi, per essere riusciti a portare avanti un progetto culturale nonostante l’emergenza sanitaria.
Continuando a speculare sui possibili utilizzi di questo tipo di tecnologia, vi è senz’altro la possibilità di realizzare mostre virtuali, “inesistenti” che, eliminando i costi e la movimentazione delle opere, permettano, ad esempio, di accostare un Caravaggio a un’opera di un artista emergente. Si deve però sempre tenere presente che mancherebbe il rapporto diretto con l’opera, l’interazione del corpo del visitatore con lo spazio della mostra e il fondamentale colloquio con gli artisti, aspetti in definitiva insostituibili in quest’ambito.
Le domande dalla chat
Quali sono le tematiche che interessano la tua ricerca curatoriale?
Lavorando per il Premio San Fedele, che accetta partecipanti sino ai 35 anni, mi focalizzo sui giovani artisti. In generale, mi attrae il lavoro, di approccio post-pop, su immagini pre-esistenti il cui scopo è cercare di fare ordine, di criticare e processare un mondo fatto di un soverchiante flusso di immagini, attraverso il filtro di tecniche e sensibilità personali. Mi interessa anche molto il lavoro di rinnovamento di linguaggi tradizionali quali pittura e disegno con un’attenzione anche per quelle situazioni grigie, in between, tra arte figurativa e arte astratta e che riescano a superare quindi questa distinzione di generi prettamente scolastica.
Puoi dare, da curatore, qualche consiglio a chi vorrebbe inserirsi in questo settore dell’arte contemporanea?
È una domanda a cui è difficile rispondere, nel senso che non c’è una ricetta, bisogna cominciare facendo “gavetta” e cercando di crearsi una rete di contatti. Personalmente io ho cominciato a farlo con le riviste e con i contatti con gli artisti che spesso sono diventati anche amici. Il consiglio-non consiglio che mi sento di dare è di lavorare onestamente e cercare più canali per mettere in moto il proprio lavoro. È difficile raggiungere immediatamente l’istituzione anche perché il sistema in Italia non è molto ben articolato rispetto forse ad altri stati, quindi raccomanderei di concentrarsi più che sulla visibilità, sulla qualità del lavoro e sull’onestà dello stesso.
Che progetti hai per il post-quarantena?
C’è un progetto la cui inaugurazione è prevista –emergenza sanitaria permettendo- per il 31 maggio a Lana, vicino Merano, in Alto-Adige che si inserisce in un festival culturale, transdisciplinare e tematico, LanaLive, organizzato dall’artista concettuale Hannes Egger. La mostra che mi è stata commissionata all’interno dell’iniziativa si terrà al Kunsthalle West Eurocenter, nella periferia di Merano e cercherà di sviscerare il concetto di sotterraneo – tema del festival di quest’anno – attraverso il lavoro di sei o sette artisti. Sicuramente coinvolgerò nuovamente Renato Calaj per la sua indagine dell’underground urbano e sociale; probabilmente saranno presenti le foto di Mattia Zoppellaro che riprende la scena underground di grandi città internazionali come quella punk di Mosca. Ci saranno però anche artisti che lavorano su un’idea più fisica di sotterraneo, cercando di portare la luce in qualcosa che ontologicamente è caratterizzata dal buio.
Quando curi una mostra da cosa parti? Dagli artisti? Da un’idea? Dallo spazio che ospiterà il progetto o da altro?
Si parte da un mix di elementi, tra cui caso e opportunità. È difficile che vada in uno spazio e che proponga un progetto precostituito. In generale comincio innanzitutto dagli artisti quando penso possano interpretare un pensiero, un sentire, un elemento che ritengo interessante. Per sintetizzare è una triade composta da spazio, concept e artisti da cui si sviluppa in maniera organica il progetto di mostra. Poi ci deve essere un’occasione, non sempre programmabile precisamente, offerta dal decisore, titolare di uno spazio pubblico o privato.
Quale pensi sia l’aspetto del tuo ambito lavorativo meno chiaro al grande pubblico?
Penso che il grande misunderstanding sia il fatto che si pensi non ci sia grande volontà di comunicazione da parte di artisti e curatori, che non ci sia voglia di intavolare discussioni e che si preferisca chiudersi in una torre d’avorio fatta di ambiguità. Invece, è un lavoro che nasce proprio dal dialogo con persone diverse e penso che questa iniziativa di Balloon Project cerchi di sfondare lo spesso strato di incomprensione – tacciata spesso di snobismo da parte dei media – che avvolge il mondo dell’arte contemporanea.
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Link della visita virtuale su ArtLand: https://www.artland.com/exhibitions/grey-street
Courtesy delle opere di Giulia Dall’Olio e di Ettore Pinelli: Traffic Gallery di Bergamo