Fluid like concrete, tough like sand
Tempo+Materia: l’impressione dell’esistenza
La riflessione di Alessio Barchitta si prende il tempo di cominciare, nel senso che l’esperienza precede la riflessione per poi trasformarsi in azione creatrice.
È così già dall’inizio: Alessio studia grafica pubblicitaria per poi andare a Brera e avere successo come pittore realista; si sentiva stretto però in quest’a(m)bito e passa a indagare la materia, ad essere attratto dallo studio del metodo lavorativo di Burri e arrivare a trovare il baricentro della propria ricerca nella parte processuale della creazione. Comincia a indagare l’idea di tempo, a leggere Heidegger e a fare esperimenti con i più vari materiali: la terra, la fiamma, il sale e lo zucchero.
A un certo punto, il blocco: non si sente padrone della forma di ciò che crea. Poi decide di modellare la materia fino a quanto si sentiva e sceglie il tempo come collaboratore per dare una forma, mai definitiva. Un esempio iconico dei lavori su questa linea è la serie di “sacchetti” fatti di lenzuola, riempiti di frutta e appesi al chiodo, così che la forma fosse modellata dalla gravità e il colore dal tempo di decomposizione della frutta. L’elemento arbitrario è solo il limite di tempo dato in anticipo e diverso per ogni sacchetto.
Il Biennio a Brera è consacrato allo studio teorico. La prima opera a conclusione di questo periodo è un site-specific in occasione di una mostra collettiva in Sicilia. Dentro una rocca l’artista chiude ogni fonte luminosa nella stanza di sua competenza, creando un percorso obbligato tramite delle piante indigene e pungenti che il pubblico è costretto ad attraversare fino ad arrivare ad un luogo di sosta, incarnazione del concetto di rifugio, a metà del percorso.
Arriviamo così all’incontro tra l’idea di casa con quella di tempo da cui si generano gli strappi, protagonisti della mostra Fluid like concrete, tough like sand, inaugurata presso la galleria Amy-d Arte Spazio il 10 ottobre e che si concluderà l’1 novembre. L’idea è raccontare la storia di una casa che non c’è più – sia in senso fisico sia concettuale – tramite la materia stessa del (s)oggetto e non una sua rappresentazione. Barchitta trova nel silicone il materiale più idoneo per portar via le stratificazioni di colore di un’intera parete, appartenuta a una casa sarda del paesino di Nughedu Santa Vittoria, prossimo alla scomparsa per via del suo spopolamento. La casa è un concetto ancora archetipo ma che da cinquant’anni a questa parte ha subito un forte cambiamento. Difficilmente i giovani costruiscono la propria vita di adulti anche solo vicino alla casa dei genitori. Allo stesso tempo “casa” è un posto dove si passa una minima parte della giornata, a differenza di una volta. Gli strappi presentano colori su colori, molto diversi tra loro e sopra tutti, come ultimo strato, ricorre il bianco, simbolo assoluto dell’omologazione che il Dopoguerra ha promosso in cambio della promessa di un futuro migliore.
Nella rielaborazione in chiave contemporanea dei (non) luoghi di Marc Augé, l’artista prende in esame quei posti, numerosi nell’età contemporanea, in cui le relazioni interpersonali sono potenziali ed effimere sia in termini di tempo sia di profondità. Un’altra opera sul tema è presente nella mostra Fluid like concrete, tough like sand: s’intitola Errante eterotopico. Si tratta di un progetto itinerante che parte dalla realizzazione di una struttura domestica in legno d’abete, le cui pareti interne sono rivestite di lenzuola da letto usate e lavate con sapone di casa, mentre i “muri” esterni sono rivestiti di coperte isotermiche. Entrambi i rivestimenti rimandano all’idea di indurre calore ma in due accezioni diverse: una domestica e l’altra d’emergenza. L’opera è stata installata all’aeroporto di Malpensa e nel passante della stazione Repubblica a Milano e riportata in mostra tramite una fotografia scattata presso il “Bastione Santa Maria”, all’interno del castello di Milazzo (Sicilia), il primo luogo che ha toccato e che è stato scelto per la contraddizione dei suoi usi successivi: da spazio sacro a militare. Successivamente la struttura è stata spogliata del morbido rivestimento e murata con del PALLET, un materiale che veicola l’idea dello scambio delle merci e quindi del viaggio, per poi essere incendiata. Paradossalmente quest’azione, apparentemente distruttiva, ha reso l’oggetto impermeabile e ancor più inattaccabile dagli agenti esterni. Questa idea di resistenza, complementare a quella di inaccessibilità dell’oggetto è resa ancora più esplicita da una performance avvenuta presso l’“Auditorium San Vito” di Barcellona Pozzo di Gotto, paese d’origine di Barchitta. Le performers cercavano in tutti i modi di spostare, appropriarsi dell’opera senza riuscirci, così se andavano portandosi dietro solo le macchie scure lasciate sulla pelle e sui vestiti dal contatto con la struttura. Un’altra foto in mostra testimonia questa metamorfosi del lavoro, preannunciando la terza: un modellino ridotto della struttura, ricavato dalla sua distruzione; una trasformazione parodistica dell’opera nel momento in cui si colloca in uno spazio commerciale, quello della galleria. Il link tra le due foto e la scultura è immediatamente riconoscibile dal materiale incendiato che costituisce la cornice delle due fotografie e l’intera struttura dell’opera al centro della stanza. In quest’ultima versione, il lavoro ricorda più una cuccia murata che una casa, date le dimensioni e il moto scattante e circolare che lo fa girare su sé stesso. L’opera si fa parodia di sé stessa nel momento in cui entra nello spazio condizionato all’arte.
L’inganno è appunto l’altra idea-chiave della ricerca di Alessio Barchitta. Rappresentativa è l’ultima opera realizzata per la mostra: Kick me, una serie di quelli che a prima vista sembrano palloni da calcio, emblema dell’oggetto semplice e ludico, di facile comprensione e fruibilità; una volta che lo spettatore si avvicina però si rivelano essere impraticabili nel modo dettato dal senso comune poiché sono costituiti da piastrelle in ceramica recuperate – così come il prato sintetico del campo da calcio sui cui sono installati – presso un torrente del paese d’origine dell’artista. L’installazione è completata da una tenda ovale che circonda il “campo”, sull’idea di quella che circonda la culla del bambino ma espansa su misura dell’adulto. Anche qui l’idea di infanzia, di sicurezza è contraddetta dallo stesso oggetto: stampati sulla tenda vi sono i bunker usati durante la II° Guerra Mondiale, situati vicino al paese dell’artista, che negli ultimi anni sono stati occupati abusivamente.
I concetti di casa, memoria, paradosso, sicurezza e attualità vengono abilmente connessi tramite paradossi dall’artista che ben esplicita alcune delle linee archetipe che legano l’uomo di una volta a quello di oggi, innescando un’utile riflessione, usando i cocci del passato per avere una più chiara dimensione dell’ambiguità del presente.